RANOCCHIETTO
Giulio iniziò a cantare con vocetta stridula la canzone del Ranocchietto
mentre i suoi amici saltellavano sul posto fingendo come sempre di apprezzare
l’abbozzata danza del destino.
Perché Giulio aveva otto anni, era il più grande, il capo
indiscusso, ma soprattutto era perfido.
Lo sapevano bene i bambini che ogni pomeriggio giocavano nel
cortile del palazzo di Via Foscolo 75.
Gli occhietti piccoli, la testa troppo grossa rispetto al
corpo e la pelle pallidissima, sembrava la personificazione del diabolico
ranocchietto della filastrocca che adorava cantare con il dito puntato come una
pistola verso gli amichetti tremolanti.
“Un due tre, il ranocchietto sceglierà te?
Quattro cinque sei, prenderà lui oppur lei?
Sette otto nove, la gamba all’insù, la testa all’ingiù,
dieci dieci dieci, il prescelto sei tu, lui dice sei tu!”
Era quello il momento in cui Martina, di anni 6, se non si ritrovava col dito ossuto di Giulio-Ranocchietto
puntato contro, iniziava a scaricare la tensione mangiandosi le trecce.
Anche quel giorno
Martina se le mangiò, però più nervosamente. Giorgio, sette anni e mezzo, l’eterno
masticatore di gomme, ridusse il chewing-gum in poltiglia sotto ai denti. Il
piccolo Fabio strabuzzò gli occhi dietro i rotondi occhiali giganti.
“Levati, Harry Potter dei miei stivali!!!” Lo spintonò
Giulio, usando una delle espressioni colorite del padre. Il bambino ondeggiò
avanti e indietro come una marionetta di legno attaccata coi piedi alla base.
Più tardi avrebbe detto agli amici che non era caduto perché lui era davvero
Harry Potter, ma che Giulio non doveva saperlo.
“Oh, ma guarda un po’ a chi tocca…” Sorrise il perfido.
Gabriele, fratello maggiore di Martina, ribattezzato il
Gigante dagli amichetti a causa dell’altezza, appena vide il dito puntato
contro di lui deglutì rumorosamente per la paura, perché troppo timido per
rendersi conto di essere molto più alto del dispotico compagno di giochi.
“C-c-c-che cosa de-de-de-vo fare?”
“Boh! Tu non devi manco giocare, guarda come parli!”
Strepitò Giulio seccato un po’ per finta, un po’ sul serio.
“C-c-c-che cosa de-de-de-vo fare?” Ripetè lui, agitato.
“Scegline un altro.”
“C-come?”
“Canta tu il ranocchietto e scegline un altro!”
Gabriele il Gigante capì che si trattava di una sicura
umiliazione. Perché lui balbettava, era così, quando parlava qualcosa si
inceppava, non riusciva ad andare avanti, si vergognava. In più la settimana
prima era successa una cosa brutta.
Stava aspettando nell’atrio della scuola il suo papà, e poi
così, aveva notato due mamme che lo fissavano e borbottavano fra loro.
“E’ quello il bambino che balbetta… che poi, queste cose se
le curi si mettono a posto subito… ma i genitori se ne fregano, dai…” Diceva
una e l’altra assentiva con la testa, muta.
Era tornato a casa mogio, e il papà si era arrabbiato perché
teneva il muso.
“N-n-no.” Rispose quindi, vergognandosi.
“Non vuoi fare la conta?” Si finse sorpreso Giulio.
Il Gigante scosse il capo.
Martina si mise in bocca l’intera treccia. Giorgio deglutì il
chewing gum senza volerlo e subito dopo se ne accorse, ma era troppo tardi. Al
piccolo Fabio caddero gli occhiali per lo spavento. Nessuno aveva mai detto di no al perfido
Giulio.
“Va bene”- fece il despota, sorridendo- “…allora tu non
giochi più!”
“S-s-sì che g-g-ioco!”
“Allora fa’ la conta!” Insistette, aggressivo.
“Nononvogliononmipiace!” Disse tutto d’un fiato il Gigante.
Vide l’espressione sconvolta degli altri, gli occhiali di Fabio cadere di
nuovo, Giulio avere un sussulto più da bambino che da Ranocchio, e si rese conto
di non aver balbettato. Appena il tempo di vedere il volto di quel piccolo
dittatore contrarsi in una smorfia, che saltò fuori con passo svelto Chiara
Maggi, la burrosa portinaia.
Quello era il segnale che il gioco era finito, che erano le
diciassette e quindi tutti dovevano salire a casa dai genitori.
“Tu vedi cosa succede domani!” Disse stupitissimo Ranocchietto
al Gigante, guardandolo storto, prima di correre via veloce come il vento.
Il giorno dopo, alle 16 in punto, nel cortile mancava
Giorgio, il masticatore di gomme.
“Dov’è?” Chiese Giulio.
“Io lo so!” Fece Martina.
“Eddai, dov’è?” Fece il bambino.
“ E’ andato con la mamma a prendere la cuginetta alla stazione!” Disse
con entusiasmo Martina e si sentì improvvisamente importante per poter dare una
notizia che non sapeva nessuno.
Due secondi per elaborare l’informazione, poi saltò su
dicendo:
“Macchè cugina!! E’ scappato, ha paura! Perché sa che oggi
tocca a lui!” Sorrise agli altri, in un modo che prometteva dispetti e
vendette.
Martina allora non si sentì più importante. Si morse il
labbro, poi decise di mangiarsi anche la treccia.
“Oggi sua mamma diceva così…” Azzardò.
“Sei una bugiarda!” Perseverò il diabolico. Le puntò il dito ossuto contro e a tutti
sembrò di nuovo il cattivissimo Ranocchietto della filastrocca. Con l’altra
mano frugò nella tasca della giacca aperta, senza sorridere però. Gli occhi
puntati su di lui, decise di far durare il più a lungo possibile la misteriosa
danza delle rachitiche dita.
Estraendo finalmente un paio di piccole forbici con la punta
arrotondata dalla tasca, si avvicinò a Martina.
“F-f-forbici?”
“Oh, non puoi!”
“Le ha prese da scuola!”
Fecero, uno dopo l’altro, i bambini.
“Taglio una treccia a
tua sorella!” Disse Ranocchietto.
“No!” Urlò il Gigante.
“E’ colpa tua, che ieri non hai voluto fare la conta!” Il tempo di dire queste parole, che il
terribile Giulio corse verso una pietrificata Martina, inseguito da Gabriele il
Gigante e dallo spaventatissimo Fabio-Harry Potter, a cui caddero gli occhiali.
“No!No! L-l-lo dico a t-t-t-tuo p-papà!” Urlò, tenendolo per la giacca.
“Suo papà non c’è, è andato a vivere via…!” Disse Fabio.
Fu allora che Ranocchietto, approfittando del momento di
stupore del compagno di giochi, con un veloce strattone si liberò dalla presa.
Si avventò su Martina e le tagliò, veloce, una treccia.
Fu il caos.
I tre si ritrovarono sul cemento, con qualche sbucciatura,
sconvolti, a fissare gli occhiali di Fabio abbandonati sull’asfalto.
Ranocchietto, il braccio alzato, impugnava la treccia come
un lugubre trofeo.
Eccitato per l’ennesima vittoria, prese a ridere
sguaiatamente. Rise, rise, a crepapelle, fino a coprire il pianto di Martina, ad
occhi chiusi, nevroticamente, sin quando non li riaprì e vide che a guardarlo sconvolto
era tornato Giorgio, il masticatore di gomme.
Vicino a lui, una bambina bionda, gli occhi stupiti, verdi, il vestitino blu, gli teneva stretta
la mano come fosse stata la sua appendice.
Lo fissavano, e guardavano anche la treccia, e non si capiva
se guardassero con più disgusto lui o quest’ultima.
Ranocchietto cercò di sostenere lo sguardo della bimba e
qualcosa di sconosciuto, simile alla vergogna, lo spinse a nascondere il
maltolto dietro la schiena.
I tre bambini si alzarono, mogi, barcollanti.
“Lei è mia cugina…ma
che avete fatto?” Chiese Giorgio.
Prima che potessero rispondere, la burrosa portinaia Chiara
Maggi entrò a passo spedito nel cortile e, afferrato Ranocchietto per un braccio,
strepitò e urlò frasi sconnesse e minacciose.
“Disgraziato! Demonio!” Ripeté più volte, strappandogli di
mano la treccia e trascinandolo con sadica soddisfazione verso le ire della
madre.
Ranocchietto fu messo in castigo per dieci giorni.
Di solito quando
capitava non gli importava, ma questa volta sì, avrebbe tanto voluto scendere a
giocare con gli altri, perché era apparsa la misteriosa bambina bionda.
Chissà come si chiamava?
La finestra della sua cameretta dava proprio sul cortile e
tutti i pomeriggi, dalle 16 alle 17, li guardava giocare serenamente. Tentava
di incrociare i loro sguardi, ma i bambini fingevano di non vederlo, anche il
piccolo Fabio; lui ci rimaneva male
perché non sapeva che la portinaia aveva detto loro di non guardarlo.
Un giorno la bambina bionda per caso si voltò verso la
finestra e lo salutò timidamente; lui ebbe un sussulto al cuore ma la bimba venne
subito portata via da Gabriele il Gigante e i giorni seguenti, anche se
Ranocchietto da lontano la fissava, non alzò più la testa.
Forse non era un caso, perché sua mamma gli diceva sempre di
prendere esempio da Gabriele, che era dolcissimo e non dava da pensare ai
genitori. “Ma tanto tu non cambierai mai, è inutile, io lo so. Ho già tanti
problemi, non riesco più a starti dietro, proprio a me doveva capitare un
figlio così!” Gli diceva, e lui era triste di sentire che non sarebbe cambiato
mai.
Al decimo giorno fu accompagnato dalla portinaia in cortile,
su richiesta della madre.
C’erano già gli altri, anche la bambina bionda. La sua mano
si fece piccola, stretta nel lardoso pugno di Chiara Maggi e, sentendosi impotente,
sperò che Gabriele il Gigante non si rendesse conto proprio in quel momento di
essere molto più grosso di lui.
“Non combinare più pasticci!” Disse la custode, prima di
andarsene a passo spedito.
Ranocchietto li guardò tutti e li vide timorosi, fissarlo a
semicerchio di fronte a lui. Era evidente che lo consideravano ancora il capo.
Guardò la bambina bionda e pensò di chiederle come si
chiamasse, ma le parole gli si fermarono in gola. Pensò che forse Gabriele si
sentiva così, quando balbettava e lui lo umiliava di fronte al gruppo. Poi fece
un bel respiro e
“Cometichiami?” Disse forte, tutto d’un fiato. La bambina si
nascose dietro al Gigante e lo guardò di sbieco.
Ranocchietto sentì il cuore incrinarsi. Gabriele custodiva
il nome segreto dell’angioletto biondo, perché lui era il Gigante, era dolce,
non veniva mai messo in castigo, lo diceva anche la mamma. Gli sembrò di
sentire Giorgio ridacchiare, chissà poi se era vero, ed istintivamente gli
puntò il dito contro. Vide quel suo stesso dito verdognolo e ossuto e lo
abbassò, desiderando non fosse il suo. Si sentì solo.
“Dai, digli come ti chiami.” Disse Giorgio, rivolto alla
cugina.
“Gaia…” Sussurrò lei, stringendo il braccio di Gabriele e
guardando Giulio con sospetto.
“Gaia, facciamo un gioco?” Disse Ranocchietto.
La bambina non rispose.
Lui deglutì e si sforzò di pensare a qualcosa di carino, di
divertente per lei, affascinato da quegli occhi verdi, col cuore che gli
batteva forte.
Poi l’occhio gli cadde involontariamente sui capelli
tranciati di netto della povera Martina e si ricordò dell’orrore, delle parole della mamma, si ricordò che lui
non sarebbe cambiato mai.
Vide i suoi compagni di giochi e si sentì intrappolato dalle
loro aspettative.
Vide lo sguardo spaventato dell’angelica Gaia.
Pensò che in fondo, lui era il capo.
Giulio iniziò a cantare con vocetta stridula la canzone del Ranocchietto
mentre i suoi amici saltellavano sul posto fingendo come sempre di apprezzare
l’abbozzata danza del destino.
Veramente bellissimo! Una penna deliziosa che rende la lettura fluida ed interessante.
RispondiEliminaNe sono felice ed onorata...!
RispondiEliminasono Ornella!!! La ragazza che hai conosciuto ieri!!! :D
RispondiEliminaCiao Ornella!!! Grazie ancora per ieri :)
Eliminadi nulla figurati! sei davvero molto brava!!! Complimenti! :D passami il tuo contatto facebook in privato se vuoi :D
EliminaSu Facebook mi trovi come Marika Lopa :)
EliminaE grazie anche per i complimenti :)
Elimina"Ho trovato questo breve racconto molto delicato, molto ben scritto, e assolutamente sorprendente. Sei brava. Tutto il “contenuto” del racconto è splendido, a tratti illuminante."
RispondiEliminaPino De Renzi, scrittore, Torino
RACCONTO BELLISSIMO ! FLUIDO E INTERESSANTE ! COMPLIMENTI ! AL INIZIO ERO SCETTICO SUL NOME "SCRITTRICE DI QUADRI" . INVECE MI SONO RICREDUTO POICHé LE SCENE SONO RESE COME UN CICLO DI QUADRI CHE INSIEME RACCONTANO LA LORO STORIA ! DAVVERO BRAVA !
RispondiEliminaMINAFRA CARLO UMBERTO , ASPIRANTE SCRITTORE , TORINO